Un uomo arriva col treno, un altro uomo ha fatto della stasi il suo credo, la sua stessa vita.
Il primo insegna al secondo come si beve, d'un sorso, perché apre i condotti, il secondo lo erudisce sull'utilizzo delle pantofole.
Poi tre riprese fisse su di una cittadina di provincia, la luce è quella del mattino, una panoramica dx/sin, l'interno di una macchina e tre brutti ceffi che guardano una banca... è il noir alla francese
Poi la scena del bar, con il prof riconosciuto da chi lo doveva picchiare... è la forza sommessa e travolgente di questo tipo di cinema.
Un predatore notturno, gufo, allocco barbagianni, non importa, è il potere della morte in agguato, anche il rumore della falce affilata... un giardiniere è come la morte, si dimentica in fretta.
Viviamo senza ricordarcene, se così non fosse non potremmo vivere, bello l'assurdo che soltanto un buon film ti può far riconoscere.
Il tempo che fa, il tempo che passa, un altra certezza che se ne va, meglio così, il prof e il gangster, il previdente e l'avventuriero che si vogliono scambiare i ruoli.
L'uomo del treno, un ottimo rimedio contro la banalità colpevole, un inno alla poesia della vita, che sia avventurosa e senza pace che sia quella sempre uguale ed abitudinaria che ti conduce sempre nello stesso posto come le rotaie di un treno, d'altronde è proprio un treno che conduce anche l'avventuriero ad incontrare il suo destino.
La perfezione esasperante di una sorella assolutamente a posto soltanto in apparenza, i modellini, le cravatte, le riunioni, noi, i bambini di una volta, con la loro immediatezza che si/ci trasformano in ridicole mummie educate.
Un libro senza storia non esiste, ed un film?
Colla pipa e l'espressione giusta perfino una rock star può fare il professore... perchè l'importante è far riflettere l'allievo, fargli scoprire le cose che lui già conosce... ah, la vecchia maieutica...
La parole sono la rovina dell'intellettuale, la continua mutazione, il perenne cambiamento, la mancanza di un punto fisso, la sconfitta dell'avventuriero.
Bello: "ha una brutta cera..." "è la luce" un dialogo perfettamente giustificato dalla situazione, ma anche extradiegetico, è la luce che tutto questo film ha, seppiata negli interni, azzurra nei freddi esterni, belle anche le inquadrature ravvicinate che si alternano a tranquilli campi medi.
Quando dice "magari" sulla soglia della sua cucina Rochefort, il prof in pensione, sembra proprio un ragazzino emozionato al pensiero di una cartolina dall'amico famoso che viene dall'altro capo del mondo... poi però l'espressione si scioglie, l'emozione ammiccante si trasforma in triste delusione: lui non è un ragazzino, ma un vecchio che sta per subire un intervento alle coronarie.
La morale finale è tristissima e profondamente vera: puoi vivere come vuoi, o meglio come puoi, ma non puoi comunque sfuggire al tuo destino...
Tutto qui?
beh, non proprio altrimenti che cosa starebbe li a fare quel bel sottofinale con lo scambio delle chiavi e delle vite?
Una felicità alla fine forse è possibile, nel cambiamento in extremis, nella volontà di non cedere senza aver combattuto, nella tenacia di chi non molla anche se sa di avere già perso.
e bravo Leconte! |