Lâ senâ di sèt sén, dietro quello che sembra uno scioglilingua in vernacolo, si cela, un rito antico che ogni anno, a Rivanazzano, viene riproposto nel periodo natalizio: “la cena delle sette cene”.
Sette erano le portate che componevano il menù, come i peccati capitali, i giorni della creazione, le ore di luce in inverno.
Questa cena era un codice, dov’erano mescolati gastronomia, religiosità, ritualità della tradizione.
Con la cena delle sette cene si riprende, inoltre, l’antico rito dei saturnali, che festeggiavano la fine della fase discendente del sole sull’orizzonte e l’inizio di quella ascendente, che culmina con il solstizio d’estate.
La società contadina, a contatto ogni giorno con problemi di sopravvivenza quotidiana, sfruttava la circostanza della “cena delle sette cene” per rimpinzarsi.
Ogni oggetto o elemento legati a questo momento conviviale acquista un immenso potere che li trasforma in strumenti terapeutici validi per tutto l’anno; tutto è magico e significativo.
Un esempio su tutti, il pane, che diveniva oggetto di grande attenzione…
Fu tramandata per secoli in conventi e monasteri, la leggenda secondo la quale durante la fuga in Egitto, Gesù Bambino, in un momento di pericolo, venne nascosto in un contenitore con della pasta di pane, che per gli ebrei era senza lievito. Questa pasta però lievitò fino ad avvolgere e nascondere il Bambino. Da qui la considerazione quasi sacra del processo di fermentazione.
Si aveva, infatti, una cura speciale per conservare “âl cârsént”, l’unico modo per poter fare il pane la volta successiva.
Il capo famiglia, all’inizio della cena, deponeva sulla tavola un grosso miccone, contraddistinto da un bastoncino, e a fine pasto ne distribuiva dei pezzetti allo scopo di preservare dalle malattie. L’avanzo veniva tenuto da parte fino a Sant’Antonio (17 gennaio), per darne dei bocconi agli animali della stalla, così da essere protetti tutto l’anno dalle malattie.
La sacralità del pane, nella tradizione, era data anche dal segno di croce tracciato con la lama del coltello sull’impasto prima della lievitazione.
Altro piatto ricco di simbologia era la torta di zucca, che, con il suo colore, rappresentava il sole, che sembra essersi materializzato rendendola ricca di energia e capace di nutrire non solo il corpo.
Questa cena, che veniva preparata all’antivigilia di Natale, era (ed è) “di magro” (di tipo monacale per non avere rimorsi) ed era comunque un intreccio di simbologie pagane.
L’aglio e la cipolla, che avevano lo scopo di allontanare gli spiriti malefici, sono presenti nell’insalata preparata per l’occasione, nelle cipolle ripiene e nel sugo dell’“âjà” (agliata) che veniva usato per condire le tagliatelle. E queste ultime dovevano essere tagliate larghe per poterle chiamare “fasce del Bambino”.
Le noci, ingredienti di base del loro sugo, indicano prosperità e fecondità, mentre l’uvetta, presente nel merluzzo, è simbolo di abbondanza e rende importante un piatto povero… Ecco il menu completo:
Insâlàtâ âd bidràv, püvrón e inciùd
(Insalata di barbabietole, peperoni e acciughe)
Turtâ d’sücâ
(Torta di zucca)
Sigùl cul pen
(Cipolle ripiene)
Fas dâ Bâmbén cun l’âjà
(Fasce del Bambino con l’agliata)
Mârlüs cun l’üvâtâ
(Merluzzo con l’uvetta)
Furmâgiâtâ cun mustàrdâ
(Formaggetta con mostarda)
Per giâsö cöt cun i câstégn
(Pere ghiacciolo cotte con le castagne)
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