Tanto forte è ancora oggi la valenza simbolica della Torre di Babele, sinonimo di confusione delle lingue e di follia umana, da rendere la sua identificazione storico-archeologica, il suo radicarsi in un determinato contesto culturale, del tutto irrilevante. Malgrado ciò, mai come in questa istanza, la leggenda si è sedimentata nella realtà.
“Babilonia era una coppa d’oro in mano al signore, con la quale egli inebriava tutta la terra”. Così diceva Geremia, a proposito della città dei giardini pensili, del palazzo di Nabucodonosor, della torre all’ombra della quale si parlavano tutte le lingue del mondo. Ma, già all’epoca, il profeta si sentiva in dovere di precisare che al glorioso passato della città degli dèi non corrispondeva un presente altrettanto fulgido, visto che “… all’improvviso Babilonia è caduta”.
Cos’era successo? Perché, e quando, quel formidabile laboratorio di civiltà si era trasformato in un sinonimo universale di peccato e confusione? Dev’esser stata una caduta ben brusca, quella di Babilonia, se la sua eco si è propagata fino ai giorni nostri, e il solo evocare quel nome disgraziato ci fa pensare non già ad una culla di civiltà, quanto ad un ricettacolo di perfidie assortite.
Paolo Brusasco - ospite sabato sera al Museo Archeologico Lomellino di Gambolò come protagonista della conferenza Babilonia: archeologia e mito - aggiunge un mattone importante all’indagine sopra un edificio culturale antico più di quattromila anni e gravato da molti pregiudizi, per provare a ristabilire un po’ di verità, o almeno concedere il beneficio del dubbio ad una città che ha una densità mitica impareggiabile, pur essendo un luogo reale quant’altri mai.
Per dire: chi, trovandosi a Baghdad, imboccasse la grande autostrada che porta a sud costeggiando l’Eufrate, dopo un’oretta circa di marcia si troverebbe di fronte a quel che resta della città degli Dei: un parco di divertimenti a ridosso delle mura della città, un hotel ricavato nelle stanze di quello che fu un palazzo di Saddam Hussein, la statua mutilata di un leone scolpito nella pietra seicento anni prima di Cristo, a perenne memento delle vittorie e delle conquiste ottenute in ogni ambito del sapere umano dai babilonesi, e oggi deturpato dai proiettili esplosi durante la guerra del 2003.
Riuscire a vedere al di là di un’attualità deprimente e misera, cercando di leggere nelle rovine e nei documenti disponibili cosa dev’essere stata davvero Babilonia nei suoi duemila anni di splendore, non è facile.
Babilonia, porta aperta agli influssi che arrivavano da oriente per muovere verso il Mediterraneo, assorbì elementi culturali di grandissima eterogeneità, che ne avrebbero decretato l’espansione e le conquiste intellettuali e tecnico-scientifiche (algebra, aritmetica e geometria, ad esempio), ma avrebbero anche posto le condizioni per la durissima riprovazione morale e la condanna che colpirono la città in seguito.
Naturalmente il peccato originale di Babele, quello dal quale nessun lavacro o abluzione sacra è riuscito a mondarla, è stato il gramelot parlato all'ombra della torre (che oggi gli studiosi sono propensi a identificare nei resti di una ziqqurat alta forse novanta metri). Quel formidabile esperanto ante litteram, autentico precipitato di inaudite mescole linguistiche e culturali, sembrerebbe troppo avanti sui tempi perfino a molti contemporanei, e probabilmente per condannarlo si farebbe ricorso anche oggi alla categoria dell’impuro, non a caso l'accusa mossa più frequentemente alla civiltà straordinaria che a Babele trovò casa.
In questa occasione Brusasco presenterà anche il suo volume Babilonia – All’origine del mito. |