Incipit sconvolgente, un cavo d'acciaio teso all'inverosimile taglia in due quasi tutti i partecipanti ad un ricco party su di una nave di gran lusso all'inizio degli anni sessanta, non ci sono parole, solo quelle cantate da Francesca, la sensuale woman in red sul palcoscenico, tutto il resto è movimento, suono, dettagli e crudele ricerca del particolare più truculento.
Poi un altro inizio, ambientato ai giorni nostri, clippettaro ma di rango, un equipaggio coraggioso di rimorchiatore oceanico dal nome romantico di Arctic Warrior salva in extremis una nave ormai al limite che sta affondando nell'oceano.
Ancora prima di cominciare a pensarci è già tutto finito, era solo un prologo, ma la misura è quella giusta.
Poi il classico bar del porto, la classica riunione tra amici/squadra che festeggia l'ultimo successo sul lavoro, ed ecco l'elemento estraneo, le dèclic, un pilota di aerei dell'istituto di meteorologia segnala ai nostri la presenza di una nave, probabilmente un relitto vicino allo stretto di Bering... se loro lo vogliono lui potrà accompagnarli e si accontenterà di una parte dell'eventuale bottino... e tutto può cominciare davvero.
Da qui in poi anche se ciò che accade non sa proprio di nuovissimo l'atmosfera non è malaccio... un po' di Shining nella scena della seduzione del nero da parte della cantante, molto "castello maledetto", con tanto di trabocchetti e salti nel vuoto durante l'esplorazione del relitto Antonia Graza, e il protagonista un po' ingenuotto un po' Terminator a seconda dei momenti... La tensione resiste, le domande ce le facciamo al punto giusto, e persino il personaggio più difficile, quello della ragazzina superstite (o quasi) della prima sera non delude per quanto sa tenere la scena...
però...
Però tutti quegli effetti speciali un po' gratuiti nel sottofinale, però tutta quella realtà virtuale sparsa a piene mani nella scena dell'esplosione, però persino la telefonatissima ricomparsa del cattivone nel finale vero...
tuttavia qualcosa che funziona davvero nel film e che scatta dal momento in cui i nostri mettono piede sulla nave fantasma ed è il senso claustrofobico di chiusura che si respira in Ghost Ship: i corridoi stretti, i saloni fatiscenti e soffocanti anche quando enormi, le cucine, le celle frigorifere, le sale macchine invase da un liquido verdognolo, addirittura i cadaveri che escono insieme all'acqua da un portellone rotondo proprio nel locale lavanderia principale (i cadaveri come abiti sporchi il cui "lavaggio" è stato momentaneamente interrotto dall'arrivo dei nostri sulla nave)... tutto è estremamente curato e repellente al tempo stesso, un po' come già accadeva in I tredici spettri sempre di questo stesso regista, Steven Beck, qui alla sua opera seconda, e del quale, date retta a me, sentiremo ancora parlare! |